Sono cresciuta leggendo, tra mille altre cose, moltissime tragedie greche, nelle quali la voce ed il punto di vista del coro aggiungono informazioni importantissime sull'intreccio, moltiplicando emozioni e punti di vista. Mi sono però spesso innamorata del ruolo del corifeo, che si esibiva in piena autonomia, rivoluzionando o ampliando quanto detto dai coreuti.
Ho studiato in una facoltà in cui il silenzio e il lavoro individuale erano considerati un valore. E sono infine stata catapultata nel mondo del management, del business e degli MBA, in cui il team working è enfatizzato in ogni singolo capitolo dei libri del settore.
Oggi anche io in aula spesso parlo di lavoro di gruppo, cercando però di mantenere saldi il senso e l'importanza, in alcuni casi ed in alcuni contesti, del lavoro individuale.
Leggo perciò con infinito piacere un articolo dell'ultimo numero italiano della Harward Business Review, dove si riporta l'intervista a J. Richard Hackman, Professore di Psicologia Sociale ed Organizzativa ad Harvard, sul tema delle condizioni di efficacia dei gruppi di lavoro.
Hackman è un po' un moderno corifeo, per la sua visione decisamente controcorrente del lavoro in team, o, per lo meno, per il fatto che non accetti a priori l'idea secondo cui lavorare in team renda tutti più produttivi, più creativi e, in definitiva, più felici e motivati.
Quali sono, allora, le condizioni per fare in modo che un team esprima il suo potenziale? E quali gli errori e le false credenze da evitare?
Leggerlo attraverso le belle parole di un autore serio, lucido ed appassionato come Hackman è un regalo per l'anno nuovo.